L’origine del Sistema Solare
“Chi siamo?”, “da dove veniamo?”, “come possiamo ideare simulazioni abbastanza potenti da descrivere un sistema caotico di N corpi in maniera sufficientemente dettagliata da predire la formazione del nostro sistema planetario a partire da una nube di gas e polveri?”, a tutti sarà capitato di porsi queste domande esistenziali. Alle prime due, la risposta spetta ad altre branche del sapere, ma per la terza possiamo fare qualcosa.
Per imbarcarci in questa avventura, è necessario fare alcune premesse. La prima è che un modello chiaro, lineare e perfettamente funzionante della formazione dei sistemi planetari attualmente non esiste, nonostante le grandi innovazioni tecnologiche e teoriche degli ultimi anni abbiano fortemente contribuito ad ampliare le nostre conoscenze a riguardo. La seconda è che lo studio della formazione di un sistema planetario rientra in una più ampia casistica di problemi che viene identificata come “Problema degli N corpi”, una sfida tecnologica e dinamica la cui risoluzione è ancora oggi un problema aperto.
Il problema degli N corpi
Attualmente, le informazioni che riguardano la storia dei sistemi planetari, ed in particolare del nostro Sistema Solare, provengono da tre fonti principali:
- Le osservazioni di dischi protoplanetari attorno a stelle giovani
- Le analisi chimiche e fisiche delle meteoriti e dei campioni asteroidali riportati a Terra dalle missioni spaziali (come le rocce lunari delle missioni Apollo o i frammenti di Itokawa della giapponese Hayabusa)
- La teoria ed i modelli computazionali
Quando i sistemi sono composti da pochi e ben conosciuti oggetti, la terza fonte di informazioni potrebbe essere sufficiente per avere un quadro completo della loro formazione ed evoluzione: si impostano le equazioni, si utilizzano le informazioni disponibili sul moto e sulla struttura dei corpi, e si risolve il problema ottenendo in linea di principio lo stato del sistema in qualunque momento della sua storia. Tuttavia, un sistema planetario come il nostro Sistema Solare è costituito da talmente tanti corpi (fatto in genere indicato dicendo che si tratta di N corpi), che una soluzione teorica delle loro equazioni del moto è estremamente complessa, per non dire impossibile, ed è necessario utilizzare potentissime simulazioni digitali per poter ottenere almeno una soluzione approssimata. Tali simulazioni, tuttavia, presentano numerosi limiti intrinseci dovuti sia alla tecnologia (senza alcun tipo di semplificazione, servono risorse informatiche enormi per poter gestire i calcoli necessari a simulare il moto di tutti gli N corpi), sia al fatto che per simulare un moto a partire da un certo momento del tempo è necessario conoscere precisamente lo stato del sistema in quel momento, per la stessa ragione per cui non è possibile sapere quanto tempo è necessario per arrivare a Milano se non si sa da quale punto del mondo si parta. Questo stato è dato da un insieme di condizioni, dette iniziali, che sono la velocità e la posizione in un dato momento del tempo delle centinaia di migliaia di corpi che compongono il sistema planetario.
In generale, il problema degli N corpi può essere formulato in questo modo:
Date le posizioni e le velocità di tutti i corpi che compongono il sistema in un dato momento del tempo, calcolare la forza gravitazionale che ognuno esercita su tutti gli altri, e da questa predire le loro orbite future.
Dalla difficoltà di compiere un’operazione del genere in un sistema in cui le variabili sono troppe per essere tenute sotto controllo, si dice che il sistema è caotico, ossia soggetto al famoso “effetto farfalla“. L’effetto farfalla è chiamato così dall’immagine popolare in cui un battito d’ali di una farfalla da una parte della Terra potrebbe, a causa dell’impossibilità di predire il moto di tutte le particelle che compongono l’atmosfera (anch’essa un sistema caotico), in linea di principio portare alla formazione di un uragano dall’altra parte del globo. Traducendo, questo significa che variando leggermente le condizioni iniziali, l’evoluzione del sistema può essere del tutto inaspettata. Questo problema si presenta anche nello studio dei sistemi di particelle, degli ammassi stellari o delle stelle nelle galassie.
Il lavoro dei fisici è ad ogni modo proprio quello di capire come e quanto un problema si possa semplificare ed approssimare senza che il modello teorico svicoli troppo dalle osservazioni. La forza di tali approssimazioni si riduce mano mano che la tecnologia si sviluppa e permette di tenere sotto controllo un numero maggiore di variabili. Ecco quindi come, seppur con i dovuti interrogativi rimasti aperti, si sono riusciti a stabilire alcuni punti fermi nell’evoluzione dei sistemi planetari ed in particolare nel nostro Sistema Solare.
La formazione stellare ed il disco protoplanetario
Il Sistema Solare si è formato tra 4.5 e 4.6 miliardi di anni fa per collasso di una nube molecolare, la Nube Solare. Prima della nascita del nostro Sole, una stella bruciava gli elementi di cui era composta fino a giungere a fine vita in una fredda nube di gas e polveri. Può succedere che in queste nubi si formino delle regioni in cui la densità è maggiore del resto della nube: la loro forza di gravità è di conseguenza maggiore ed ulteriore materiale viene attirato in questi punti. Se alla fine del processo la massa è sufficiente, si può formare una stella. L’aggregazione avviene in rapida rotazione, causando spesso la frammentazione della nube in più oggetti e dando quindi origine a sistemi stellari binari o ternari. Esistono tuttavia anche casi in cui si formano stelle singole, le cosiddette stelle T tauri. Non è escluso che il Sole facesse parte di un sistema binario, ma per semplicità prendiamo il caso in cui esso si sia formato come stella singola.
Dai modelli e da misure indirette, sappiamo che le stelle neonate sono circondate da dischi di polvere, detti dischi protoplanetari o proplyds (dalla contrazione di protoplanetary disks). Generalmente questi dischi non vengono trovati attorno a stelle nate da più di 10 milioni di anni, quindi i pianeti si formano quando le stelle sono veramente molto giovani. Parte del disco cade sulla stella, in un processo detto di accrescimento viscoso, che lo porta a perdere anche un milionesimo di massa solare all’anno (un milione di miliardi di miliardi di kg). Il processo responsabile di questo accrescimento è probabilmente l’Instabilità Magnetorotazionale (MRI): parte del gas contenuto nel disco è elettricamente carico ed il campo magnetico della stella neonata ruota insieme alla stella stessa, spazzando le particelle del disco. In questo modo tali particelle urtano tra di loro, generando attrito e quindi un rallentamento della rotazione. Rallentando, il materiale si avvicina al Sole fino a cadere nel suo inferno di plasma. L’MRI può non essere efficace allo stesso modo in tutti i punti del disco, creando delle zone morte in cui il materiale è libero di addensarsi senza essere spazzato da alcun campo magnetico.
I planetesimi
Le particelle di polvere non hanno gravità sufficiente per attrarsi vicendevolmente creando corpi più grandi, ma possono venire in aiuto le forze elettrostatiche. Quando i corpi sono così piccoli, queste risultano infatti più forti della gravità, e i grani di polvere (grandi in media circa 1 micron, ossia un millesimo di millimetro), urtano tra di loro e si attaccano elettricamente in un processo detto sticking.
A questo punto spunta uno dei problemi dei modelli delle fasi iniziali del Sistema Solare: la turbolenza. Ci si aspetta infatti che il disco protoplanetario sia turbolento, ma è difficile quantificare quanto lo sia. Se il Sistema fosse poco turbolento potrebbe avvenire il processo di Instabilità Gravitazionale, ossia un maggiore compattamento delle particelle sul piano equatoriale del Sole che avrebbe portato alla formazione di corpi con dimensione tra 1 e 10 km, detti planetesimi. Un’altra possibilità è quella della concentrazione turbolenta, che prevede l’esistenza di zone stagnanti in un disco ricco di turbolenza. Sebbene questi planetesimi si debbano senz’altro formare, non è comunque chiaro quale dei due modelli sia più adatto a descrivere il processo. A questo punto è in ogni caso necessario fare una distinzione tra la prosecuzione dell’evoluzione per quanto riguarda i pianeti terrestri e quelli gassosi.
I pianeti terrestri
I corpi che si muovono più lentamente e che sono più grandi hanno più probabilità di urtare tra di loro in maniera non distruttiva. I corpi più grandi tendono quindi a diventare sempre più grandi, in un processo noto come runaway growth, mentre la maggior parte dei planetesimi cresce molto meno. I planetesimi più grandi vengono detti embrioni planetari e su di essi si vanno a costruire le fondamenta per il futuro sistema planetario interno. Da un certo punto in poi, solo gli embrioni continuano a crescere ed i planetesimi non riescono più a farlo in quanto i primi gli sottraggono tutto il materiale disponibile (un processo detto di crescita oligarchica). Gli embrioni iniziano a ripulire delle zone anulari in corrispondenza della loro orbita (feeding zone), accrescendo la propria massa fino a divenire pianeti rocciosi veri e propri. Mercurio, Venere, Terra e Marte avrebbero quindi seguito un processo di questo tipo per arrivare ad essere i pianeti che conosciamo oggi, con atmosfere, quando presenti, catturate da ciò che rimaneva del gas della nube nel Sistema Solare interno (o dall’urto con corpi minori come le comete).
I pianeti gassosi
Per i pianeti gassosi, la formazione è concettualmente più semplice di quelli terrestri. Si pensa infatti che essi si possano formare direttamente dal collasso iniziale della nube, come fossero delle stelle mancate. Giove, Saturno, Urano e Nettuno si sarebbero formati in questo modo, con masse differenti a causa della diversa densità di gas e polveri, maggiormente concentrati verso l’interno del Sistema Solare. La presenza di Giove, attraverso la sua attrazione gravitazionale, avrebbe impedito alla Fascia Principale di Asteroidi di compattarsi anch’essa in un quinto pianeta roccioso.
I satelliti
I satelliti si possono formare in molti modi. Il più semplice è sicuramente la cattura. Ad esempio un gigante gassoso, con la sua grande attrazione gravitazionale, può facilmente aver catturato alcuni planetesimi come satelliti. Attorno ai pianeti grandi come Giove, c’è anche la possibilità che i satelliti si siano formati allo stesso modo dei pianeti rocciosi attorno al Sole, come fosse un sistema planetario in miniatura. Un discorso a parte merita la Luna, molto grande rispetto al nostro pianeta. Si ritiene, infatti, che la Terra sia stata colpita da un planetesimo, noto come Theia, che avrebbe causato una espulsione di materiale poi ricompattato nella bellissima Luna.
Le migrazioni e le risonanze orbitali
La descrizione finora fatta, lascia apparire il processo di formazione planetaria come un fatto tutto sommato tranquillo, in cui i vari corpi non si infastidiscono molto a vicenda. In realtà quelli descritti sono i processi base, ma esistono poi molti altri processi che portano a sensibili modificazioni della struttura del sistema planetario e dei singoli pianeti. I principali di questi processi sono le migrazioni e le risonanze orbitali.
Abbiamo detto che il Sistema Solare è caotico, in cui ogni corpo riceve spinte gravitazionali da tutte le direzioni a causa dell’interazione con gli N corpi che compongono il sistema. Siccome queste interazioni sono così numerose e caotiche da poter essere considerate casuali, sul lungo periodo la forza media che quel corpo ha ricevuto è sostanzialmente pari a zero (perché prima o poi ogni contributo gravitazionale trova un suo opposto con cui in media il risultato è 0). Ci sono però alcuni casi in cui la forza gravitazionale esercitata da un corpo non è affatto casuale, ma si ripete ciclicamente in maniera definita. In questo caso i due corpi si dicono in risonanza orbitale e la loro interazione non si annulla con le altre interazioni casuali. Un classico esempio di questo fenomeno sono le interruzioni di Kirkwood, dei buchi nella Fascia Principale di Asteroidi in cui non c’è nessun corpo a causa della spinta gravitazionale esercitata periodicamente dal moto orbitale di Giove (ad esempio si dice risonanza 3:1 il luogo in cui ad ogni orbita di Giove corrispondono 3 orbite dell’asteroide).
Le migrazioni planetarie sono invece quei fenomeni che si originano a causa dell’interazione tra i pianeti ed il materiale del disco. I pianeti scambiano energia con tale materiale, causando una modificazione della propria orbita. Sappiamo ad esempio che in passato Giove ha migrato verso l’interno e poi nuovamente verso l’esterno del Sistema Solare, causando il late heavy bombardment, una fase storica in cui gli asteroidi della fascia principale sono stati lanciati in tutte le direzioni dalla grande massa di Giove, fatto registrato dall’enorme numero di crateri coevi visibili sulla superficie di corpi come la Luna.
Sembra ironico che nonostante il nostro sguardo si sia spinto fino ai confini del Cosmo ed i nostri modelli tentino di ricostruire cosa avvenne nei primi istanti di vita dell’Universo, la ricostruzione della storia evolutiva di qualcosa a noi così vicino come il Sistema Solare resti un campo estremamente attivo e problematico. Solo tramite il progresso tecnologico e scientifico le nostre conoscenze a riguardo potranno raffinarsi ed in questi anni in cui lo sforzo esplorativo si sta facendo sempre più intenso, le speranze di arrivare un giorno ad un modello chiaro ed esaustivo di come il Sistema Solare si sia formato ed evoluto sembrano non essere più vane.
Fonti: Spohn et al., Encyclopedia of the Solar System (2014), Carroll et al., An Introduction to Modern Astrophysics (2006), Woolfson et al., The Origin and Evolution of the Solar System (2000)