Keplero e la musica dei pianeti
Nel 1619 Keplero scrisse l’Harmonices Mundi, Le Armonie del Mondo, un trattato in cui discute delle analogie tra la musica e i fenomeni fisici.
È proprio in questo trattato che compare per la prima volta la sua Terza Legge del moto planetario, quella che pone in relazione il tempo che i pianeti impiegano ad orbitare con la loro distanza dal Sole.
Nel trattato c’è un’ampia discussione sul legame tra le orbite planetarie e le armoniche musicali, una relazione che aveva già una lunga tradizione fin dai tempi di Pitagora e dei filosofi medievali.
Keplero trovò che il rapporto tra la velocità orbitale minima e massima dei pianeti, che si raggiungono all’afelio e al perielio (i punti più lontani e più vicini dal Sole), avevano rapporti simili a quelli di una successione armonica.
Per esempio, la massima e la minima velocità orbitale della Terra sono in rapporto 16 a 15, essendo di circa 30 km/s e 28 km/s. Il rapporto è simile a quello che si ha tra il Mi e il Fa, un semitono.
Le velocità minime e massime definivano quindi i confini per l’estensione vocale dei pianeti, ossia quante note erano in grado di suonare. Venere poteva cantare una sola nota, perché la sua orbita è quasi circolare (rapporto 25 a 24), mentre Mercurio, con l’orbita molto ellittica, poteva cantare il più ampio spettro di note.
Nel coro planetario di Keplero si trovavano un tenore (Marte), due bassi (Giove e Saturno), un soprano (Mercurio) e due alti (Venere e Terra). Di quando in quando, a seconda delle orbite relative, i pianeti potevano trovarsi in risonanza e intonare una melodia consonante, con suoni gradevoli all’orecchio, o essere in dissonanza e intonare una melodia sgradevole.
L’interpretazione di Keplero era di stampo teologico e astrologico, in quanto cercava nella matematica l’espressione del volere divino e della creazione, ma le misurazioni e la matematica erano rigorose e basate sulle osservazioni più accurate disponibili al tempo.
Oggi abbiamo misure molto più accurate del Sistema Solare, e sappiamo che l’interpretazione di Keplero era, a prescindere da tutto, in parziale disaccordo con le reali orbite planetarie. Tuttavia il concetto di risonanza orbitale è ancor oggi utilizzato per indicare un fenomeno fondamentale nell’evoluzione del nostro sistema planetario. Due corpi celesti si dicono in risonanza orbitale quando il rapporto tra un parametro che descrive le loro orbite è piccolo. Ad esempio se ogni due orbite di un corpo se ne ha una di un altro, i due corpi si dicono in risonanza 2 a 1. Questo pone i due corpi in forte e ripetuta interazione gravitazionale, generando effetti dinamici rilevanti per la struttura del sistema.